Le famiglie della Via F. Crispi negli anni 50/60

LUCIANO ARDISSONE
LE FAMIGLIE DELLA VIA F. CRISPI NEGLI ANNI 50’ E 60’

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La Via F. Crispi è una parallela della centralissima​ Via Serra nel Rione Gagliano di Gioia Tauro.

Il Rione Gagliano è sorto fra la fine degli anni 20’ e il decennio successivo in un’area, ancora non edificata,​ adiacente alla Via Roma. In quest’area esistevano soltanto degli edifici baraccati che ospitavano le famiglie costrette a lasciare le loro case ubicate nel centro storico e danneggiate a seguito del terremoto del 1908. Il Rione fu realizzato adottando criteri urbanistici all’avanguardia per il tempo e tali da favorire l’aggregazione e la socializzazione degli abitanti. Infatti è facilmente raggiungibile dagli altri punti della città, le strade sono disposte parallelamente e perpendicolarmente tra di loro, il centro del Rione è la Piazza (Piazza Duomo) ai cui lati​ furono edificate la Chiesa Matrice, la Scuola, un edificio pubblico, la cui prima destinazione fu quella di ‘Casa del Contadino’, ed una schiera di civili abitazioni a due piani. Questo Rione insomma,​ rappresentava e rappresenta un modello​ urbanistico, sicuramente unico nella nostra città, finalizzato a favorire i rapporti sociali e i momenti di vita quotidiana dei cittadini. Tant’è che fino all’inizio degli anni sessanta nella Piazza Duomo si teneva il tradizionale mercato settimanale e tanti giovani si riunivano per discutere e per disputare interminabili partite al pallone. Le sue particolari caratteristiche urbanistiche hanno permesso inoltre, negli anni successivi, di edificare importanti edifici pubblici (scuole ed ufficio delle poste) e di allocare studi professionali ed uffici privati.

La ‘Casa del Contadino’, da poco fatta demolire dall’Amministrazione Comunale che, con l’avallo della Sovrintendenza di Reggio Calabria, non ha ritenuto il fabbricato un manufatto degno di essere conservato, per erigere al suo posto​ un moderno edificio a tre piani la cui destinazione sarà quella di ‘urban center’ (sic), era​ ​ uno dei pochissimi esempi della provincia di architettura razionalista, tipica dell’era fascista, il cui maggiore esponente fu l’arch. Piacentini.

Io, come altre centinaia di cittadini gioiesi, avrei preferito mantenerlo integro e consegnarlo per posteri. Questo edificio ha ospitato, dopo la Casa del Contadino, l’Ufficio Postale, la Pretura, la Biblioteca Comunale e l’associazione umanitaria ‘Lavanda dei Piedi’.

Purtroppo nella nostra città, negli ultimi trent’anni, tanti edifici importanti sono stati distrutti e tanti luoghi significativi per la memoria e le radici dei gioiesi sono stati modificati. Mentre altrove, anche una pietra che ricordi il passato, è ritenuta degna di essere mantenuta intatta, nella nostra città nulla appare culturalmente necessario e prevale soltanto, in molti amministratori e in molti cittadini,​ la voglia di tutelare egoisticamente i propri interessi.

La Via F. Crispi inizia dall’intersezione con la Via Serra, all’angolo con Piazza Duomo. Procede parallelamente alla Via Serra per poco più di 100 m. e termina intersecando nuovamente l’estremo tratto della stessa Via, all’incrocio con Via Vittorio Emanuele III. Lungo questa Via la maggior parte degli edifici, negli anni 50’ e 60’, erano quelli ​ realizzati per sostituire le baracche che ospitavano i cittadini che avevano subito danni alle​ abitazioni a causa del terremoto del 1908.

La forma e l’aspetto​ era uguale per tutte le case: ad un solo piano fuori terra, dotate di un cortile interno e, quelle sul lato sinistro della strada, leggermente più grandi e con un giardino retrostante di dimensioni sempre maggiori man mano che ci si sposta verso il fondo della strada. Dal punto di vista costruttivo, vennero realizzate con una tecnica per il tempo di avanguardia, con struttura portante in cemento armato e mattoni pieni e tetto in legno e tegole. Questa tipologia costruttiva le rendeva antisismiche e sicure. Poche altre case poste lungo la via avevano una struttura in muratura ordinaria.

Negli anni quasi tutte le case sono state sopraelevate, spesso utilizzando la stessa struttura portante.

Una caratteristica della Via Crispi, che dimostra l’accuratezza degli interventi urbanistici di quel periodo storico mediante la realizzazione di opere di prevenzione atte a prevenire​ danni per cause naturali, è la presenza per tutta la sua lunghezza, nella parte più interna alle spalle della case poste sul lato sinistro, di un fosso per lo scolo di acque bianche e meteoriche. Il fosso, profondo 1,5 metri ed altrettanto largo, un tempo in terra battuta ed ora cementato, partendo dalle ‘Cisterne’ fino a Via Vittorio Emanuele III, corre adiacente agli edifici della Via Roma da Piazza dell’Incontro a Piazza Matteotti, i quali hanno le finestre retrostanti, quasi tutte fornite di grate, che si affacciano su di esso. Nei miei ricordi non ho mai visto neanche un rigagnolo di acqua scorrere nel fosso e, sicuramente per questo motivo, veniva chiamato < a sicca >.

< A sicca > era anche luogo dei nostri spostamenti di bambini da una casa all’altra. Spesso d’estate ci spostavamo lungo di essa fino al​ famoso ed ancora esistente < Bar Delle Rose > della famiglia Benedetto, le cui finestre retrostanti affacciano sul fosso, per comprare i gustosissimi gelati, evitando di fare il giro lungo.

La Via Crispi,​ negli anni della mia fanciullezza ed adolescenza, era anche luogo di ritrovo di tanti ragazzi del rione, che passavano lunghe ore, fuori dai pericoli del traffico, a giocare con noi residenti ai tanti giochi​ di quel tempo (a landa, u surici, a singa, battimuro, palluni ). I più fortunati possedevano la bicicletta sulla quale si montava anche in tre. In quel tempo la strada davanti casa era per tutti un luogo sicuro d’incontri e​ di giuochi. Fino all’età dell’adolescenza era difficile spostarsi anche da un rione all’altro e la vita della strada, con tutta l’umanità in essa presente, rappresentava il nostro mondo e ci aiutava a crescere.

Nella strada, come del resto anche in altri luoghi della città, sostavano per gran parte della giornata anche gli adulti, soprattutto le donne. Le case erano piccole e le famiglie numerose, per cui tante faccende domestiche si espletavano all’aperto. D’inverno il braciere, unica fonte di riscaldamento realizzato con carbone ardente che, dopo essersi consumato per evitare esalazioni nocive, si portava all’interno delle abitazioni, si preparava sul marciapiede. I panni si stendevano lungo la Via. Le fornacette,​ anch’esse poste all’esterno, spandevano tutt’intorno piacevoli profumi di pietanze arrostite, quasi sempre​ di melanzane e peperoni più raramente di carne o pesce.​

Lungo la Via, d’estate, si portavano avanti​ casa le sedie ed iniziavano interminabili e coloriti discorsi, mentre le donne si dedicavano a qualche piccolo lavoro di cucito, a voce molto alta perché bisognava farsi sentire ad una certa distanza. Con molto candore e senza remore i fatti personali e familiari venivano portati all’attenzione dei vicini. Ogni tanto volava qualche parola grossa e scoppiava qualche scintilla, che però veniva spenta quasi subito dall’intervento paciere della comare.

Fatta questa veloce premessa, ​ è bene riprendere il tema di questa mia breve riflessione: “Le famiglie che abitavano lungo la Via F. Crispi negli anni 50’ e 60’ del secolo scorso”.

Partendo dall’intersezione con la Via Serra, nella casa, posta ad angolo con Piazza Duomo, abitava la famiglia Panunzio, per intenderci quella​ di Ferdinando e di Vanni, scomparso prematuramente. Accanto, c’era l’abitazione della sig.ra Sofia, nonna dell’avv. Francesco. Era una persona gentile e amica delle mie zie e di mia madre con le quali si scambiava le visite, come si usava fare in quel tempo fra conoscenti. Dopo la scomparsa della signora Sofia, nella stessa casa venne ad abitare la famiglia Ape e, tutt’oggi, vi dimorano i superstiti. Gli Ape hanno discendenza amalfitana e lavoravano nel settore del commercio all’ingrosso nei magazzini della Via Lo Moro.

Di fronte, sul lato destro della Via, ad angolo con la Via Serra, c’è una palazzina a due piani, fatta realizzare dal sig. Scannapieco e abitata dalla sua famiglia fino agli anni 60’. Anche gli Scannapieco, come gli Ape e tanti altri arrivati a Gioia Tauro a partire dalla fine dell’ottocento per aprire attività commerciali, sono di origine amalfitana (caconghi). Il sig. Scannapieco​ era proprietario di un avviato negozio di generi alimentari. Alla sua morte i figli hanno preferito lasciare Gioia. Io sono stato compagno di scuola nella terza liceo classico dell’ultimogenito Ugo, bravo calciatore e, cosa che mi colpiva maggiormente, proprietario di una fiammante giulietta alfaromeo.

Accanto alla palazzina degli Scannapieco, in una casetta ancora rimasta intatta, abitava la signora Tripodi, mamma del prof. Albanese. Era una vecchietta gentile ed arzilla e, nonostante l’età, appoggiandosi ad un bastone, camminava spesso lungo la via, fermandosi​ a chiacchierare con le persone che incontrava.​

Continuando sul lato sinistro della strada, la prima abitazione era quella della famiglia Stimolo-Gabriele: nonno, nonna, genitori e tre figli. I figli sono Cecè, Pino e Nino, quest’ultimo più o meno della mia età. Quella casa è ora abitata da altri.​ Nei miei ricordi di allora è viva l’immagine del nonno degli Stimolo che, essendo corpulento, dotato di una voce stentorea ed avendo perso, non so per quale motivo, quattro dita di una mano, gesticolava spesso con l’unico dito rimastogli, incutendo non poco timore in noi ragazzi.

Adiacente alla dimora degli Stimolo c’era quella della famiglia Ritrovato e Plateroti,​

i cui figli ancora abitano nella nostra città e qualcuno anche in quella casa. Soltanto Rosetta, l’unica femmina sposata con il dott. Teramo, vive al nord. Don Santo Ritrovato è stato un abilissimo muratore, poi diventato appaltatore, e sono tantissime le costruzioni della nostra città realizzate da lui.

Don Santo è stato uno di quegli onesti e bravi artigiani, ed in quel tempo ce ne erano tanti, che hanno dato lustro​ alla nostra città e che hanno rappresentato con i commercianti l’ossatura sociale ed economica di Gioia in quel periodo storico.

Poco più avanti ecco l’abitazione della famiglia Bagalà, in quel tempo composta dai genitori, la zia Maria e i figli Pepè, Carmelinda, Mimmetto e Concettella. Il papà, mastro Melo, era anch’esso una figura importante della società gioiese del tempo. Bravissimo artigiano del ferro, ha realizzato​ opere che sono presenti in tantissime case ed ha formato tanti giovani apprendisti. Ricordo la sua officina, posta nel retro della casa, che mi affascinava in un modo indescrivibile, nella quale, accanto alla grande incudine, era sempre accesa una fornace dove riscaldare il ferro per poi plasmarlo. Il rumore del martello sull’incudine echeggiava lungo tutta la strada.

Un altro ricordo indelebile è quello del povero Mimmetto, allegro e scansonato, poi diventato bravo giornalista, grande organizzatore di giochi e di competizioni coinvolgenti per i ragazzi che frequentavano il rione.

Adiacente alla casa della famiglia Bagalà, c’era la dimora dei Genovese. Don Carmelo, la signora Giulia e il figlio Salvatore. Don Carmelo e la sua storica cartoleria, posta lungo la Via Roma, sono stati punti di riferimento e di piacevole frequentazione per noi ragazzi. Si andava a comprare di tutto, dalle caramelle ai quaderni ai giocattoli e si veniva accolti con gentilezza e affabilità. Soprattutto la signora Giulia, donna gentilissima, generosa e rispettosa, molto amica della mia famiglia, riusciva a metterci sempre a nostro aggio.

Ricordo che, la signora Giulia, assieme a mia zia Lina, aveva il compito di preparare con tulle e fiori la statua di Gesù Morto per la processione del Venerdì Santo. Io ero sempre presente ed assistevo compiaciuto al loro lavoro, anche perché avevano sempre le tasche colme di caramelle e confetti che offrivano sorridenti a noi ragazzi.

Con Salvatore ho trascorso e trascorro tuttora tanti momenti piacevoli ed anche culturalmente intensi.

Dall’altro lato della strada abitavano i Nicoletta –Plateroti. Il padre, la madre Maria, la zia Lettera, il nonno mastro Mico ed i quattro figli dei quali, i due maschi Mario e Aldo sono quasi miei coetanei. Nicoletta padre, dalla figura elegante, era un bravo falegname e lavorava presso il negozio di mobili del Comm. Pirilli. A metà degli anni 60’ quasi tutti i membri della famiglia hanno lasciato Gioia per trasferirsi a Torino per lavoro. Però, una volta raggiunta l’età della pensione, hanno preferito rientrare al paese natale per trascorrervi gli ultimi anni di vita. E’ questo un commovente esempio di attaccamento al paese d’origine.

Il nonno, mastro Mico, spesso alzava il gomito assieme ai compari nella cantina dello zi Millo e, rientrando la sera, si sentiva la sua voce squillante annunziare l’arrivo alle figlie e chiedere da lontano, con epiteti simpatici ma irripetibili, la preparazione della cena.

Accanto ai Nicoletta e con ingresso dalla Via IV Novembre abitava, con due sorelle nubili, donna Paola Pronestì, sposata Nostro, “a magara”. Persona distinta ed educata, esercitava il mestiere di chiromante ed attirava tanti clienti che facevano la fila davanti alla sua porta. Io avevo nei suoi confronti una incredibile soggezione che, a volte diventava timore. Pensavo che all’interno di quella casa si facessero impensabili riti magici e, quando passavo davanti, evitavo anche di guardarla.

Di fronte ai Nicoletta, per un periodo di tempo che ricordo vagamente, c’era la famiglia di uno degli Agresta (u cagliu), poi emigrato in America. Successivamente venne ad abitare la famiglia De Gennennaro,​ il cui capofamiglia era dipendente comunale.

Nello stesso isolato dei Nicoletta, separate dai rispettivi cortili, c’erano le case abitate da una della figlia di donna Paola, Lucia, sposata Ritrovato e da un’anziana signora, Donna Mariannina, della quale non ricordo il cognome e che era la suocera di uno dei fratelli Distefano. Mi è rimasta impressa nella mente un’immagine commovente, che osservavo dalla finestra di casa mia, di una bimba, gravemente ammalata nipote della signora Mariannina, che veniva portata in braccio dal padre per far visita alla nonna. La bimba dopo pochi giorni volò in cielo.

Queste due case, acquistate da don Carmelo Maisano e sopraelevate, divennero il negozio e l’alloggio della sua famiglia. Don Carmelo era, in quel tempo, un importante e conosciuto commerciante di tessuti e la sua attività è ora condotta dalla figlia Maria Cristina. Con i Maisano si instaurò un forte rapporto di amicizia soprattutto con i figli Franco, Rosalba e Maria Cristina.

Il blocco di case successivo era abitato dalle famiglie Pennizzotto, poi emigrati al nord e qualcuno rientrato successivamente a Gioia Tauro dove tutt’oggi dimora e, per un breve periodo, da Luigi Gambardella, noto personaggio gioiese impegnato attivamente in politica e nel sindacato, e dalla famiglia Assanti.

Gli Assanti erano nostri dirimpettai​ e la famiglia era composta da padre, madre e cinque figli. Il più piccolo, Natale, era mio coetaneo. La madre, donna corpulenta, passava la giornata seduta davanti alla porta mentre le figlie badavano alle faccende domestiche ed i figli erano a lavoro. Il padre, don Angelo, era stato barista al “bar​ delle rose“ e poi aveva ottenuto una rappresentanza di cialde per i coni gelati ma, ritenendosi un intellettuale ed un uomo di cultura (e forse lo era veramente!) trascorreva le sue giornate a leggere libri sulla storia su Ponzio Pilato (non sto scherzando!). Infatti aveva presentato domanda quale concorrente alla trasmissione​ <lascia o raddoppia?>, condotta da Mike Bongiorno, scegliendo come argomento proprio la vita di Ponzio Pilato. Purtroppo la convocazione per partecipare al programma non arrivò mai, che io sappia.

All’improvviso la famiglia Assanti andò via da Gioia per trasferirsi al nord e, al suo posto, per qualche anno, arrivò la famiglia Crea, il cui padre era autista alle Ferrovie Calabro-Lucane.​

Queste case, negli anni successivi, cambiarono destinazione d’uso e subirono una sopraelevazione, diventando attività commerciali e, al piano superiore, dimora della famiglia Cruciani-Nostro.

Dall’atra parte della strada c’era, e c’è tuttora, il villino della famiglia Avila, miei zii e cugini, realizzato parte in muratura e parte in legno con le pareti esterne rivestite con mattoni​ e intonaco, circondato su tre lati da un grande e magnifico giardino, con tanti alberi​ da frutto e piante sempre fiorite. Al centro del giardino c’era la grande vasca con i pesci rossi, luogo preferito per i giochi da noi bambini. Più volte, a causa della nostra vivacità, abbiamo fatto pericolosi tuffi nell’acqua bassa della vasca.

Il prof. Francesco Avila, di origine siciliana (Calatafimi), insegnate e direttore didattico, marito di mia zia Maria, era un uomo alto e di grande cultura. Agli inizi degli anni 40’ fu mandato, per qualche anno,​ dal governo nelle Isole Greche per dirigere una scuola italiana. Fu uno dei primi gioiesi ad acquistare un’automobile.

I fratelli Avila​ erano in 7: 3 femmine e 4 maschi . Una delle femmine purtroppo morì in giovanissima età. Gli altri, belli e simpatici, rimasero a Gioia Tauro fino al 1960 per poi trasferirsi a Reggio per lavoro.

Giovanni Avila, il più grande dei fratelli, sposò una giovane fiorentina, arrivata a Gioia Tauro con i soci toscani dello stabilimento O.L.C.A. che allora stava per nascere, per lavorare da segretaria. Ho voluto accennare a questo avvenimento per mettere in risalto quanto nella nostra città, in quel periodo storico, fossero vive e fiorenti le attività commerciali e quante piccole industrie stessero per nascere, tanto da attirare persone da ogni parte d’Italia. Questo rinascimento economico, purtroppo, durò soltanto il lasso di un decennio, dopo il quale iniziò il sacco della nostra terra.

Dopo la partenza degli Avila, quella casa fu abitata dalla signora Chiappalone, madre del nuovo proprietario, il geom. Mimmo Pugliese. I due vani fronte strada furono adibiti a negozi e, in uno di quelli, per un decennio svolse la sua attività di stagnino don Pasquale Nostro, con pochi clienti ma con tanti amici che giornalmente andavano a giocare a briscola.

L’ultima casa sulla sinistra era quella della mia famiglia, la più grande tra quelle a schiera essendo formata da due alloggi comunicanti, un grande cortile ed un bel giardino, parte del quale ci fu sottratto con un atto di prepotenza dagli amministratori del tempo, al centro del quale svettavano un grande albero di fichi ed una palma. All’interno del cortile c’era una casetta in muratura che serviva da ripostiglio, deposito e ricovero attrezzi. Questa casetta era uno dei luoghi preferiti per i miei giochi in quanto i tanti oggetti​ presenti al suo interno facevano galoppare la mia fantasia di fanciullo. Poi il cortile venne utilizzato per ampliare la casa che, successivamente, fu sopraelevata.

Con noi, in quella casa, vivevano anche le carissime e affettuosissime zie, sorelle nubili di mio padre, che hanno contribuito non poco alla mia educazione e alla mia formazione.

In casa c’era anche l’ambulatorio medico e lo studio di mio padre, dentro il quale ho assistito, mio malgrado, a tanti interventi d’urgenza.

Voglio spendere qualche rigo in omaggio delle mie zie, sulla cui vita spero di potermi soffermare più a lungo in una prossima occasione, ritenendole antesignane dell’emancipazione​ e dell’indipendenza della donna in un sud ancora arretrato.

Mio nonno Domenico, avvocato e segretario comunale, palmese ma di origine ligure, lasciò questo mondo poco più che cinquantenne, dopo aver generato ben 13 figli, dei quali soltanto nove ( 6 femmine e 3 machi) viventi alla sua morte. Le femmine erano le più grandi ed erano tutte istruite, in particolare una di loro, Giovanna, aveva conseguito a Messina il diploma magistrale e presso l’Università di Venezia un diploma universitario in lingua e letteratura francese, per il tempo fatto eccezionale. Allora, era il 1909 e mio padre, il più piccolo dei figli, aveva appena un anno, non esisteva alcuna forma di welfare né, tantomeno assegni di pensione. Le risorse derivanti da qualche proprietà terriera non erano sufficienti per il sostentamento della famiglia. Ma le mie zie non si persero d’animo ed iniziarono a lavorare, riuscendo, alla stregua di un buon padre di famiglia, a far crescere dignitosamente fratelli e sorelle, permettendo che alcune di esse si sposassero e facendo frequentare ai fratelli le scuole superiori e, a qualcuno, anche l’università.

Le mie care zie:

Elvira, la primogenita, donna forte e coraggiosa, ha preso le redini della famiglia e ne ha organizzato il cammino. E’ stata Ufficiale Postale a Cirella di Platì, paesino nel cuore dell’Aspromonte, raggiungibile allora soltanto a dorso di mulo per fiumare e montagne.

Giovanna, donna di grande cultura e fine intellettuale, allieva del poeta sacerdote Silipigni, ottima conoscitrice della lingua francese, ha dedicato la sua vita alla scuola e all’educazione dei giovani. All’inizio del secolo scorso collaborò con alcune riviste, rivelandosi un’ottima scrittrice. E’ stata insignita di medaglia d’oro dal Ministero della Pubblica Istruzione. Fu il primo Consigliere Comunale donna della nostra città, eletta con una messe di voti alle prime elezioni amministrative del dopoguerra (1946), che furono anche le prime aperte al voto femminile.

A casa, zia Giovanna, oltre che preparare tanti ragazzi per l’esame di maturità, insegnava a leggere e scrivere anche a qualche analfabeta, allora abbastanza numerosi, con lo stesso metodo usato dal maestro Manzi negli anni seguenti alla TV. Mi ritengo fortunato di aver potuto assistere a episodi che hanno determinato cambiamenti epocali della nostra società anche attraverso la lotta all’analfabetismo.

Cettina e Lina, furono il fulcro della famiglia e contribuirono ad allevare tanti nipoti. Tenevano un frequentatissimo laboratorio di ricamo, nel quale tante adolescenti preparavano il corredo da sposa. Queste ragazze erano legatissime alle zie, tanto che un anno, dovendosi cresimare ben 15 di esse, scelsero tutte le zie quali madrine. E fu una grandissima festa. Negli anni successivi ricordo che molte di loro, ormai donne mature, venivano spesso a casa a salutare le zie con tantissimo affetto e riconoscenza.

Le zie Cettina e Lina, per non essere da meno delle altre sorelle, ebbero anche in gestione per un periodo i telefoni pubblici della nostra città. 

L’ultima casa della strada era la palazzina a 2 piani dove, al piano superiore, abitava la signora Surace, madre del direttore delle Poste. La vedevo spesso sbirciare verso la strada da dietro le imposte e mi incuteva una certa soggezione.

Il piano terra era occupato, da un lato dalla famiglia Zito e, dall’altra, dal centralino dei telefoni pubblici. Al suo posto è stato realizzato un palazzo a 5 piani che ospita al piano terra la pasticceria “Paradise”.

In fondo alla strada c’era uno spazio libero con una baracca al centro, nella quale dormiva don Nino Armoleo, impiegato postale, sempre elegante e impettito. La sera, al suo rientro, erano immancabili i battibecchi con l’eterna fidanzata Ntonia, governante della famiglia Surace. Erano questi gli ultimi rumori che echeggiavano nella Via prima del riposo notturno, salvo che, in piena notte, non essere svegliati di soprassalto dal bussare concitato, alla porta dello studio di mio padre,​ di qualche cliente che chiedeva un intervento d’urgenza ( in quel periodo i medici lavoravano anche di notte).

Chiudeva la Via Crispi e la separava dalla Via Vittorio Emanuele III un piccolo giardino con qualche panchina ed una recinzione a balaustra che poggiava su colonnine simili a quelle ancora esistenti all’inizio della Via De Rosa. Una scaletta rendeva immediatamente accessibile il giardino e la Via Crispi anche a chi arrivava da Piazza Matteotti. Il giardino completava il progetto urbanistico del Rione Gagliano, rappresentando il luogo degli incontri fra adulti e dei giochi fra bambini. Lì spesso veniva montata una giostrina e, durante la ricorrenza del Corpus Domini, veniva realizzato, con la partecipazione di tutti, l’altarino rionale.

Gioia è una città che trasforma i luoghi della memoria, li distrugge e li demolisce. Un bel giorno anche il giardinetto di Via Crispi venne trasformato e la scaletta distrutta e, al suo posto venne edificato un brutto e anonimo edificio, oggi sede dell’Associazione Pensionati e che, negli anni ha ospitato anche la Sala Consiliare, l’Ufficio Sanitario e il Comando dei Vigili.


Manteniamo viva la memoria di ciò che altri distruggono.


Luciano Ardissone

Gioia Tauro, gennaio 2014

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